
Autore: Tommaso Rinaldi
Data di pubblicazione: 13 marzo 2023
La vicenda Silicon Valley Bank.
La vicenda Silicon Valley Bank.
Questa mattina Facebook mi ricorda un post scritto il 13 marzo del 2020, giorno in cui i mercati recuperarono parzialmente la devastante perdita del giorno precedente.
Nel mese di marzo, in passato, spesso si sono conclusi periodi di turbolenza finanziaria molto importanti; quest’anno abbiamo ricevuto un “regalino” chiamato SVB, Silicon Valley Bank, una banca che ha tra i principali clienti le start up californiane del settore tecnologico che, per la loro particolare natura, all’inizio della loro storia “bruciano” molto capitale e, perciò, hanno estremo bisogno di finanziarsi.
Fino agli inizi dello scorso anno, nessun problema dato che i tassi erano intorno allo zero e, quindi, i costi di finanziamento bassissimi e a condizioni decisamente vantaggiose, senza trascurare l’aspetto, non secondario, che tutto il settore tech stava vivendo un periodo floridissimo, diretta conseguenza del Covid; tuttavia, con l’aumento dell’inflazione e i conseguenti rialzi dei tassi da parte della FED - la Banca Centrale americana, seguita a ruota da quasi tutte le principali banche centrali mondiali - finanziarsi è costato molto di più (con rifiuti sempre più frequenti) così come pagare i finanziamenti già in corso.
A questo punto si è reso necessario fare fronte allo sviluppo o alla sopravvivenza delle start up stesse con i propri capitali e, quindi, chiedere il rimborso dei depositi alla banca di riferimento, ovvero la SVB.
La SVB, con i tassi a zero, aveva pensato bene di investire l’enorme liquidità riveniente dagli abbondanti depositi riversati dalla sua clientela in titoli di stato americani a lunga scadenza, proprio per cercare di ottenere dei rendimenti diversi dallo zero; con il rialzo dei tassi, i prezzi di questi titoli (considerati tra i più sicuri al mondo insieme a quelli tedeschi e svizzeri) hanno avuto dei ribassi considerevoli.
La SVB, per far fronte alla richiesta di riscatti sempre più consistente (70 miliardi di dollari in soli tre giorni), ha dovuto vendere in perdita un valore di titoli pari a circa € 21 miliardi; vendita che si è tradotta in una perdita secca di circa € 1,8 miliardi e che ha mandato gambe all’aria la banca.
Ora, che giornali e commentatori vari si affannino a parlare di “rischio sistemico”, citando a sproposito il 2008, lo trovo davvero fuorviante, anche in considerazione sia della natura particolare di questa banca, sia del peso specifico della stessa: per avere maggiore contezza e darle un valore confrontabile, SVB ha attivi per circa € 220 miliardi, Intesa SanPaolo e Unicredit - a fine 2021 - presentavano valori rispettivamente pari a € 1.059 e € 941 miliardi, quasi cinque volte più grandi.
Mi sento, perciò, di escludere rischi di contagio, tenendo anche conto che il controllo effettuato sulle banche europee è molto più ferreo e rigido e le regole ed il rispetto dei parametri assolutamente più rigoroso (l’annacquamento delle regole americane, iniziato con Clinton e reso ancor più blando da Trump, è risaputo).
Le scelte di investimento della banca sono state discutibili? Certamente sì, perché non hanno tenuto conto della possibile inversione di tendenza dei tassi e, quindi, garantirsi la corretta copertura della liquidità necessaria per far fronte ad eventuali riscatti; un fallimento arrivato nonostante la SVB non si sia avventurata in investimenti fatti di cartolarizzazioni, derivati o strumenti finanziari altamente rischiosi.
Come più volte ribadito, le banche non sono tutte uguali, non hanno la stessa potenza economica, non hanno gli stessi manager, non hanno lo stesso business, non hanno gli stessi problemi; competono nello stesso mercato ma con risultati e vicende diverse, più o meno di successo.
Sta anche al risparmiatore non farsi attrarre da sirene fin troppo melodiose, ricordando che non esistono soluzioni senza rischio, in nessuna parte del mondo.
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